FREQUENZA DEI PASTI: SFATIAMO QUALCHE MITO

FREQUENZA DEI PASTI: SFATIAMO QUALCHE MITO

FREQUENZA DEI PASTI: IL TIMING DEI NUTRIENTIE’ DAVVERO COSI’ IMPORTANTE?

Nel campo dell’alimentazione, molte credenze tramandate per decenni continuano a diffondersi senza alcuna logica o base scientifica. La difficoltà principale che ho incontrato nei primi anni del mio lavoro è stata proprio il confronto con queste idee errate, che influenzano negativamente l’approccio delle persone a un piano alimentare e spesso compromettono i risultati. Gran parte di questi miti riguarda il timing dei nutrienti e la distribuzione dei pasti durante la giornata, in relazione all’influenza ormonale e ai meccanismi metabolici coinvolti.

In questo articolo proveremo a scardinare due di queste false credenze, spesso tristemente validate anche da prescrizioni dietetiche di colleghi professionisti nell’ambito della nutrizione.

FARE 5 PASTI AL GIORNO FA DIMAGRIRE?

Aumentando la frequenza dei pasti, aumenta il metabolismo?

Partiamo da una credenza diffusa e ben radicata, sostenuta da nutrizionisti ed esperti di alimentazione: per dimagrire, è necessario suddividere l’assunzione di cibo durante la giornata. Questo implica non saltare i pasti e integrare i tre principali (colazione, pranzo e cena) con spuntini, prestando attenzione alla qualità e alla composizione degli alimenti. Ma siamo sicuri che sia davvero così?

Di solito, chi consiglia di fare 5-6 pasti al giorno è convinto che questo aumenti l’effetto termico del cibo (TEF) e, di conseguenza, il dispendio energetico. Il TEF è l’aumento della produzione di calore nell’organismo dopo l’ingestione di alimenti, corrispondente all’energia spesa per l’utilizzazione e l’immagazzinamento dei nutrienti introdotti. Questo effetto è particolarmente elevato per gli alimenti ricchi di proteine (25-30%), e minore per quelli predominanti in glucidi (5-15%) e lipidi (3-4%). Queste percentuali non sono assolute, variando in base a molti fattori; per questo, gli autori spesso aggiungono un 10% al BMR come media dell’effetto termogenico dei macronutrienti.

Nonostante il fenomeno del TEF sia stato descritto oltre un secolo fa, i meccanismi sottostanti rimangono ancora poco chiari. L’ipotesi iniziale, secondo cui il TEF sarebbe il risultato del lavoro svolto dall’apparato digerente, si è rivelata parzialmente infondata, poiché il TEF si verifica anche con l’assunzione di alimenti predigeriti e persino con l’introduzione diretta di nutrienti (amminoacidi) nel circolo sanguigno. È stato inoltre osservato che il TEF diminuisce nei soggetti malnutriti, e in particolare, quello delle proteine è tanto più basso quanto minore è l’apporto dietetico di questi composti.

Dieta a Isernia
Dietista e Nutrizionista Valentina Rossi

In considerazione di ciò, attualmente si ritiene che il TEF esprima principalmente il dispendio energetico per la degradazione metabolica degli amminoacidi quando questi non vengono utilizzati per le sintesi proteiche: in effetti, la conversione dello scheletro carbonioso degli amminoacidi che costituiscono le proteine in grasso, è un processo metabolico molto dispendioso per i nostro organismo, che ricerca sempre l’economia energetica, e per questo preferisce dissipare l’eccesso in calore. Nel caso di un deficit proteico, invece, l’efficienza metabolica aumenta e quindi la produzione di calore sarà minore.

Dunque, in contesti di iponutrizione, il TEF si abbassa in quanto l’organismo tende a diventare più efficiente. Il metabolismo si alza quando si mangia di più, e stiamo parlando di quantità e non di frequenza dei pasti. Ogni volta che sento dire che consumare 6 pasti al giorno “aumenta il metabolismo”, un brivido percorre la mia schiena e sono dispiaciuta nel constatare che siamo rimasti diversi decenni indietro.

QUANTO E’ IMPORTANTE PER LA COMPOSIZIONE CORPOREA?

A questo punto, la domanda sorge spontanea: Quanto è rilevante il numero e la frequenza dei pasti per la composizione corporea?

  • In maniera diretta, come fattore causale, ZERO
  • In maniera indiretta, può invece influire: se facendo un maggior numero di pasti, ho un miglior controllo della fame e mangio di meno, sicuramente dimagrirò. Allo stesso modo, se facendo un numero maggiore di pasti raggiungo un ammontare calorico più elevato, sicuramente ingrasserò.

Non è un determinato numero di pasti giornalieri o la frequenza degli stessi che ci permette di dimagrire, ciò che invece influisce è sempre e comunque l’introito energetico totale, rapportato al bilancio lipidico.

Perciò, la frase “bisogna fare almeno 5-6 pasti al giorno per dimagrire” non ha nulla a che vedere con il maggior dispendio energetico. Ora, non sto spingendo nessuno a consumare obbligatoriamente 3 pasti al giorno, perché sono convinta che la differenza sostanziale risieda nelle abitudini e nelle necessità della singola persona. M’interessa solo far presente che non ci sono evidenze scientifiche a supporto della diffusa indicazione dietetica di consumare un numero elevato di pasti nella giornata per ottenere una consistente perdita di grasso.

SE QUESTO ARTICOLO TI STA PIACENDO

FREQUENZA DEI PASTI: BISOGNA MANGIARE DI PIU’ LA MATTINA RISPETTO ALLA SERA?

Esiste una (assurda) teoria secondo la quale il corpo umano tende particolarmente a ingrassare in un certo periodo della giornata perchè in modalità di accumulo (di sera e di notte) e a dimagrire nella prima parte del giorno poichè l’assetto ormonale è volto ad una maggior utilizzazione dei nutrienti. I responsabili di questo “problema” sarebbero l’insulina e il cortisolo che, a parere di molti, pare che siano anche i principali responsabili della crisi in Italia e del buco dell’ozono… Partendo dall’insulina, ad essa viene spesso attribuito il ruolo di ormone ingrassante, sulla base delle sue azioni che sembrano essere rivolte esclusivamente ad indirizzare tutto il glucosio derivante dalla digestione dei carboidrati verso il tessuto adiposo, con lo scopo di “produrre grasso”. In realtà, la sua funzione primaria è quella di stimolare l’utilizzo del glucosio e la sintesi proteica dei tessuti periferici, come il fegato, il muscolo scheletrico e il tessuto adiposo; l’insulina è anche e soprattutto un ormone anti-catabolico, perchè proprio l’inibizione della mobilizzazione dei grassi (lipolisi) nel tessuto adiposo è l’azione più precoce e potente di questo ormone.

Da queste constatazioni, possiamo affermare che:

  • L‘azione dell’insulina ha come tessuto bersaglio non solo il tessuto adiposo, ma anche il tessuto muscolare; entrambi condividono infatti gli stessi identici trasportatori del glucosio (GLUT 4). E’ quindi errato pensare che quando l’insulina è alta, i nutrienti vengano indirizzati solamente nel tessuto adiposo.
  • Il glucosio è utilizzato per produrre trigliceridi nel tessuto adiposo solamente in specifiche condizioni difficilmente riproducibili nella vita reale. Si stima infatti che la De Novo Lipogenesi ( la sintesi di trigliceridi a partire da precursori non lipidici) sia infatti responsabile solo del 10% dell’origine dei lipidi a livello del tessuto adiposo.
  • L’insulina è solamente uno dei tanti fattori che intervengono nella modulazione del bilancio energetico e della composizione. Per intenderci, l’ASP, acronimo di proteina stimolante l’acilazione, è una proteina con un potere lipogenetico simile o anche maggiore dell’insulina, e non viene mai filata di striscio.

Dall’altra parte c’è il famigerato cortisolo, che segue fisiologicamente un andamento secretorio ciclico ogni 24 ore: la secrezione di questo ormone segue infatti un vero e proprio ritmo circadiano, per via del quale la sua concentrazione tocca il valore massimo al momento del risveglio, si mantiene piuttosto elevata nel pomeriggio e decresce poi progressivamente fino a toccare un minimo durante la notte. Dato che il cortisolo è uno degli ormoni che antagonizzano l’azione dell’insulina, si è ben pensato di prendere in considerazione i ritmi della sua secrezione per sviluppare strategie dietetiche per minimizzare le disastrose azioni dell’insulina.

E’ da questi presupposti che nasce il famoso modello “colazione da re, pranzo da principe e cena da povero” che, lo dico fin da subito, non ha alcun fondamento scientifico. L’orario in cui si mangia e si assumono nutrienti, qualsiasi essi siano, non è rilevante. Nel momento in cui una qualsiasi azione o un qualsiasi evento va a turbare l’omeostasi interna, e mangiare rappresenta assolutamente uno di questi eventi, il corpo umano reagisce immediatamente innescando tutti quei meccanismi di compenso e adattamento in grado di mantenere l’equilibrio e, in questo caso, di sfruttare al meglio i nutrienti secondo la loro disponibilità. In tal senso, gli ormoni esplicano semplicemente delle azioni, e tali azioni dipendono dal tessuto su cui l’ormone agisce, dal rapporto con gli altri ormoni e dalle differenti situazioni possibili. La secrezione del cortisolo, ad esempio, si focalizza non solo su fattori ormonali, ma anche e soprattutto da situazioni che si verificano frequentemente durante la vita reale: attività fisica, ipoglicemia, freddo, dolore, tutte situazioni “stressanti” che contribuiscono alla secrezione dell’ormone. E in tutto questo, il ritmo circadiano ha la priorità più bassa nella regolazione del rilascio del cortisolo.

L’assetto ormonale non influenza la capacità o meno di assimilare i nutrienti nei vari momenti della giornata. Fare colazione, ad esempio, non vi farà dimagrire rispetto a non farla, ma semplicemente perchè nessun pasto è più importante di un altro.

Dieta a Isernia
Dietista e Nutrizionista Valentina Rossi

Ci sono stati studi osservazionali che hanno indicato che le persone che saltano la prima colazione sono in realtà più grasse, e questo è stato interpretato come se fosse stato tale comportamento a far ingrassare. Questi studi hanno però tantissimi limiti, in quanto analizzano solo delle statistiche, senza indagare sui fattori causali e non causali, e in questi casi, saltare la colazione o qualsiasi altro pasto non era la causa diretta della maggior percentuale di grasso.

Certamente per alcune persone saltare i pasti potrebbe essere negativo, causando un maggior senso di fame nel corso della giornata, e se tutto ciò induce a mangiare di più, sarebbe ovviamente negativo e rappresenterebbe un fattore di rischio per mettere peso. Tuttavia, la ricerca scientifica mostra tipicamente il contrario: se le persone mangiano un po’ più tardi nel corso della loro giornata, il loro apporto calorico totale giornaliero scende rispetto a quando non saltano la colazione.

La scelta di fare o non fare colazione, di concentrare la maggior parte delle calorie la mattina o la sera, e fare 3 o 10 pasti al giorno deve essere basata solo e soltanto sulle abitudini e preferenze dell’individuo, in quanto, dal punto di vista della composizione corporea, tali scelte non hanno alcun tipo di influenza.

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INDICE GLICEMICO, TUTTO QUELLO CHE DEVI SAPERE

INDICE GLICEMICO, TUTTO QUELLO CHE DEVI SAPERE

INDICE GLICEMICO IN AMBITO CLINICO

Durante il tirocinio ospedaliero all’università, ci venne introdotto e insegnato un metodo innovativo per i pazienti con diabete di tipo 1. Questo metodo, noto come counting dei carboidrati, consiste nel calcolare la quantità di carboidrati assunti durante la giornata e la loro distribuzione, anche se inizialmente non con precisione (prima dell’avvento delle attuali app). È stato un enorme progresso per i pazienti diabetici che, in precedenza, dovevano seguire una dieta molto rigida basata esclusivamente sull’indice glicemico degli alimenti, con quantità e distribuzione dei carboidrati fisse da un giorno all’altro, per mantenere costanti i livelli di insulina.

Indice glicemico e diabete

Nel Diabete di Tipo 1, il trattamento standard è rappresentato dalla terapia con insulina secondo uno schema chiamato “basal bolus”, un modello che tenta di riprodurre l’andamento fisiologico della secrezione insulinica nelle persone non diabetiche e garantisce il fabbisogno insulinico basale con l’aggiunta di boli a ogni pasto per la metabolizzazione di quanto assunto con gli alimenti.

indice-glicemico

La dose corrispondente al bolo insulinico dipende da 4 fattori:

  • Sensibilità insulinica del soggetto
  • Glicemia pre-prandiale
  • Quantità di insulina residua in circolo proveniente da boli precedenti
  • Quantità di cibo assunta

Le prime tre variabili sono facilmente misurabili, ciò che resta da determinare è la quantità di cibo assunta.

Contare i carboidrati

Siccome il fabbisogno di insulina è legato in gran parte (MA NON SOLO) all’assunzione di carboidrati, stimando il contenuto glucidico degli alimenti consumati, si può calcolare la dose più o meno esatta di insulina da somministrare ad ogni pasto.

Naturalmente, è fondamentale che i pazienti imparino a calcolare il contenuto di carboidrati negli alimenti. Solitamente, si tende a considerare solo i cibi ad alto contenuto di carboidrati, come pane, pasta e frutta, trascurando spesso la quota glucidica presente in alimenti proteici come carne, pesce e latticini.

Questo è proprio uno dei limiti principali di tale metodo: parlare di insulina e guardare solo alla glicemia è totalmente errato, perchè la secrezione insulinica non dipende soltanto da questo fattore.

indice glicemico
Dietista e Nutrizionista Valentina Rossi

Il conteggio dei carboidrati, sebbene sia uno dei quattro approcci migliori per gestire il diabete, può essere influenzato dagli effetti sulla glicemia di un pasto misto contenente proteine e grassi.

Le proteine infatti sono in grado di stimolare la risposta insulinica e possono presentare effetti anche rilevanti sulla glicemia a distanza di 4-12 ore dal pasto.

I grassi e le fibre, invece, possono ulteriormente interferire con l’andamento glicemico post-prandiale, ritardando l’assorbimento dei carboidrati, riducendo di fatto la risposta glicemica; allo stesso modo, pasti ad alto contenuto lipidico sono in grado di indurre insulino-resistenza nelle 8-16 ore successive al pasto, per via del momentaneo eccesso di acidi grassi nel sangue.

INDICE GLICEMICO, DI COSA STIAMO PARLANDO

Nel conteggio dei carboidrati, si tiene conto di un parametro noto a molti: l’indice glicemico.

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Che cos’è esattamente l’indice glicemico? Cosa misura? E’ da prendere in considerazione? E se sì, quando e quanto?

Per definizione, l’indice glicemico misura la risposta glicemica di un alimento contenente carboidrati confrontata con la risposta glicemica derivata dall’ingestione di 50 g di glucosio.

E’ un parametro utilizzato da diversi decenni in nutrizione e soprattutto in diabetologia per rendere più semplice la scelta di determinati alimenti; da anni, fino alla fine del Ventesimo secolo ( anche se, purtroppo, alcuni clinici continuano a ragionare in questi termini) il consiglio medico principale dato al soggetto diabetico era quello di limitare il consumo di zuccheri e carboidrati in genere; successivamente si è passati ad una maggiore tolleranza nei confronti dei carboidrati, pur facendo una netta distinzione tra zuccheri semplici e amidi.

Queste indicazioni derivano dall’ipotesi che gli zuccheri semplici, essendo digeriti più velocemente, avrebbero un impatto maggiore sulla glicemia rispetto ai carboidrati complessi.

La prima ricerca sull’indice glicemico (IG) risale al 1981. I partecipanti consumarono in diverse occasioni alimenti con vari tipi di carboidrati, mantenendo costante un apporto totale di 50 g di carboidrati. Le variazioni della glicemia furono poi monitorate due ore dopo l’assunzione.

Questa risposta glicemica venne confrontata con quella ottenuta dall’ingestione di 50 g di glucosio, usato come alimento di riferimento.

In base alle risposte medie dei soggetti, ai cibi furono assegnati valori numerici, con 100 come riferimento per il glucosio puro.

Da queste osservazioni sono state sviluppate strategie e diete che selezionano i cibi in base al loro indice glicemico (IG). In particolare, si considerano dannosi e fattori di rischio per l’obesità gli alimenti con alto IG.

DOVE STA L’INGHIPPO?

Ora, quanti di voi, nella vita di tutti i giorni, si sveglia e beve 50g di glucosio? E chi di voi, quando mangia del pane bianco, lo mangia da solo o tende ad accompagnarlo con altri cibi, tipo un filo d’olio o una fetta di prosciutto?

L’IG degli alimenti, derivato da quello studio, si stabilì a priori in laboratorio, misurando le risposte medie dei soggetti a stomaco vuoto, a riposo e di prima mattina, dopo il digiuno notturno, assumendo l’alimento con determinate grammature nette di carboidrati (50 g).

Indice glicemico: qualche considerazione necessaria

Da queste premesse, possiamo buttare giù un paio di considerazioni:

  • Se un alimento viene assunto in abbinamento con altri cibi, il suo indice glicemico avrà poco valore, in quanto l’impatto dell’intero pasto sulla glicemia è diverso da quello del singolo alimento di cui abbiamo valutato l’IG.
  • Ammesso e non concesso che l’alimento venga assunto da solo, ad esempio 50 g di pasta, senza proteine, senza grassi, senza alcun condimento, dovrei pensare che, se in precedenza ho ingerito qualche altro cibo, questo andrà ad influenzare la mia risposta glicemica, poichè influisce sulla mia digestione e assorbimento dei nutrienti.
  • Se mangio un alimento quando sono sotto stress, sto lavorando, lo sto facendo di fretta o più lentamente, masticandolo più o meno bene e per più o meno tempo, la differenza in termini di risposta glicemica sarà rilevante.
  • Lo stesso alimento, mangiato cotto o crudo, scotto o al dente, così come un frutto più maturo o più acerbo, avrà un IG differente.

In poche parole, l’unico modo per riscontrare una risposta glicemica corrispondente al valore di IG di quell’alimento, è in teoria quello di consumarlo in maniera isolata, di prima mattina, a digiuno e a riposo, riproducendo in maniera impeccabile le condizioni da laboratorio, cosa che è quasi impossibile nella vita di tutti i giorni.

Dieta a Isernia
Dietista e Nutrizionista Valentina Rossi

Variabilità dell’IG sul singolo soggetto

L’IG presenta una notevole variabilità individuale, risultando più alto in persone con disturbi nel metabolismo del glucosio, come i diabetici o chi soffre di sindrome metabolica.

Ed è proprio questo il punto: l’indice glicemico e la risposta glicemica variano significativamente a seconda dell’individuo e del suo stato di salute.

Un diabetico che impara a conteggiare i carboidrati presterà maggiore attenzione all’Indice Glicemico, dato che questo influisce notevolmente sulla glicemia, pur con le dovute precauzioni.

Stiamo parlando di soggetti diabetici, che hanno come priorità quella di mantenere la glicemia stabile e controllata.

Se un “esperto” consiglia a una persona sana di eliminare le patate bollite a causa del loro indice glicemico di 96 o di evitare l’anguria per il suo indice glicemico di 72, è probabile che stiamo parlando di un ciarlatano!

Dobbiamo riconoscere l’importante impatto dell’attività fisica sull’indice glicemico: individui ben allenati registrano un indice glicemico significativamente inferiore rispetto ai sedentari per lo stesso alimento.

Se siete sportivi, se vi allenate con costanza, l’IG deve essere il vostro ultimo pensiero!

Se siete sedentari, in salute e desiderate perdere peso, ignorate l’IG e concentratevi su un allenamento adeguato e una dieta sana, equilibrata e personalizzata

Fonte: Project Diet, Daniele Esposito

Dietista Valentina Rossi

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